di Annamaria Ferrarese

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1. Presagio.

Quell’ultima alluvione era stata devastante, la diga di uno dei due laghi aveva ceduto inondando le case sparse nella valle di pini, carrubi e lecci, scorrendo fino al mare e trascinando con sé ogni cosa. La comunità di Riva dei Laghi aveva impiegato mesi per porre rimedio ai danni causati dalla forza inarrestabile dell’acqua.

Fu uno dei natali più difficili. La diga aveva ceduto il 12 Dicembre 2010, gli aiuti furono immediati, le case risistemate, ma i lavori di bonifica del territorio circostante furono sospesi a causa di una straordinaria scoperta. La forza dell’acqua aveva portato alla luce quello che sembrava il campanile di una chiesa, in seguito rivelatasi un’antica abbazia. Gli scavi di emergenza iniziarono tre mesi dopo aver messo in sicurezza la nuova diga.

Il 13 giugno l’equipe dell’università cattolica di archeologia sarda s’installò, in affitto, in due ville abitate solo per le vacanze estive dai proprietari. In soli due mesi era stato scavato un fossato largo due metri, intorno dell’abbazia riuscendo a liberare due lati dell’edificio, mentre il resto era ancora sotto terra. Il tetto sembrava aver resistito bene alla pressione delle tonnellate di terra che l’avevano ricoperto per centinaia di anni e ora si estendeva, transennato, come una grande piazza sulla pavimentazione terrosa. Purtroppo l’unica parte che aveva ceduto era in prossimità dell’ingresso principale. Avrebbero dovuto trovare un’altra via d’accesso.

*

«Du deppeis torrai a coverri!» gridò un vecchio dal margine dello scavo. Il suo viso grinzoso aveva un’espressione severa, le bizzarre e folte sopracciglia candide erano accigliate accentuando la sua preoccupazione.

«Cosa sta dicendo quel vecchio?» chiese il soprintendente a uno degli studenti, occupato a spolverare con un pennello le incisioni sul portone principale dell’abbazia.

«Signor Loi, deve allontanarsi, può essere pericoloso!» urlò Giacomo, dando poi spiegazione al suo superiore, «È un vecchietto innocuo. È da un paio di giorni che viene a trovarci, passeggia da una parte all’altra e continua a urlarci che dobbiamo ricoprire tutto.»

Quando il soprintendente Antonio Ferrari rivolse di nuovo lo sguardo verso l’anziano, questi non c’era più.

«Bisogna parlare con i familiari, lo devono tenere lontano da qui. Ci manca solo un incidente per metterci i bastoni tra le ruote!» esclamò.

«Sempre che abbia dei familiari nelle vicinanze, potrebbe essere un pensionato che vive da solo», ribadì Giacomo senza distrarsi dal suo lavoro.

«Spero che la tua supposizione sia infondata. Dove trovo il responsabile? Ne parlerò con lui.»

«Credo che sia sul retro, con il gruppo che lavora al campanile, pare che li ci sia un’apertura che ci permetterà di accedere all’interno. Non sarebbe meraviglioso?»

«Si, si meraviglioso, vado.»

Il soprintendente si allontanò preoccupato, alla ricerca del professore.

Giovanni Moi, intanto, era diretto verso la casa del figlio e della nuora con i quali viveva da sei anni. Nonostante i suoi 89 anni era attivo e autosufficiente. Amava passeggiare in riva al lago e sedersi sulle rocce lisce che affioravano dal terreno, per lanciare piccoli sasseti in acqua. Tuttavia in quest’ultimo periodo era agitato, ogni mattino si alzava di buon ora e usciva, camminava appoggiato al suo prezioso bastone. Nascosto dalla fitta vegetazione e dai numerosi lecci, spiava gli invasori che usurpavano quel terreno sacro. Poi tornava indietro per pranzo e riusciva fino all’imbrunire.

«Santo cielo, papà! Non deve stare fuori tutto questo tempo, ero preoccupata. Su venga, i ragazzi hanno già pranzato, ma io ho preferito aspettarla, così ci facciamo compagnia» disse Laura, sua nuora, andandogli incontro sul vialetto per accoglierlo.

Lui non disse nulla, parlava giusto lo stretto indispensabile, poteva sembrare burbero all’apparenza, ma non lo era affatto. Porse il braccio da perfetto cavaliere alla donna, con un sorriso parzialmente sdentato.

«Oh, che galantuomo!» esclamò con allegria Laura mentre andavano verso casa.

*

«Fabio, devo parlarti!»

Il soprintendente Antonio Ferrari aveva raggiunto il campanile dell’abbazia. Fabio Mulleri, professore dell’Università di Archeologia era a capo degli scavi d’emergenza. In quel momento discuteva sui rischi di frana dell’edificio col geologo Benito Cuglieri.

Antonio lo raggiunse per raccomandarsi che tutto il perimetro degli scavi fosse transennato.

«Sono qui! Che succede?»

«Eccoti, finalmente!» disse affannando. Odiava fare i sopralluoghi, preferiva stare in ufficio, refrigerato dall’aria condizionata, a controllare i lavori seduto comodamente nella sua poltrona.

«Per l’amor del cielo, dovete transennare gli scavi! Ho saputo da uno degli studenti che un anziano si aggira da queste parti tutti i giorni, avvicinandosi pericolosamente alle zone più ripide. Urge intervenire prima che quel ficcanaso si rompa un femore o anche peggio!»

«Si, Giovanni Moi, vive con il figlio in una delle case vicino alla diga. Arzillo se riesce ad arrivare fin qui senza un infarto, non trovate?» scherzò Fabio, tra le risa del gruppo.

«Non c’è molto da ridere a mio avviso. Se dovesse verificarsi un incidente dovremmo fermarci, Fabio, e lo sai bene! Potrebbero fermarci per settimane o per dei mesi e non è certo questo che vogliamo, non è vero?»

Il gruppo si ammutolì.

«Hai ragione, questo pomeriggio andrò di persona a parlarne alla famiglia» rispose serio, Fabio.

«D’accordo, ci vediamo la settimana prossima, e se nel frattempo dovessi trovare qualcosa di nuovo chiamami, o faxami le ricerche in ufficio» concluse allontanandosi.

*

Il silenzio pomeridiano fu interrotto dal suono di una potente frenata

«Mà, è arrivato qualcuno!» chiamò Aurelio dal loggiato.

«Chi è?» chiese Laura dalla cucina.

«Mai, visto.»

Laura uscì di casa mentre si slacciava il grembiule, e andò verso quell’uomo corpulento in jeans e maglietta.

«Desidera?» domandò con apprensione. Quell’uomo era sporco, aveva terra persino tra i capelli.

«Le chiedo scusa signora per l’ora inopportuna. Mi chiamo Fabio Mulleri, e ho assoluta necessità di parlare con lei e con suo marito.»

Sentendolo parlare Laura si rilassò e l’apprensione si trasformò in curiosità. Aurelio poggiò la chitarra che stava strimpellando e raggiunse la madre.

In quel momento fece capolino sull’ingresso Giovanni, appoggiato al suo bastone e si fermò a guardare Fabio. Nessuno si accorse di lui fino a quando non riprese con le sue raccomandazioni.

«Du deppeis coverri!» urlò Giovanni.

«Ecco di cosa volevo parlarvi» disse Fabio, indicando con la mano aperta, l’anziano sulla porta.

Laura e Aurelio si voltarono.

«Di mio suocero?» chiese sconcertata.

Fabio spiegò la pericolosa attività dell’anziano, che amava avvicinarsi sin troppo agli scavi. Intanto Giovanni li aveva raggiunti.

«Vi d’appu nau, du deppeis coverri, esti unu logu malu!»

«Signor Moi come può un’abbazia essere un posto malvagio?» domandò Fabio cortesemente.

Giovanni si avvicinò all’ospite, lo guardò intensamente con gli occhi leggermente annacquati.

«Su logu malu esti prusu asutta» sussurrò.

«Sotto l’abbazia? Non credo che sotto ci sia qualcosa, signor Moi, stia tranquillo.»

Giovanni ebbe uno scatto d’impazienza, voltò le spalle ed entrò in casa borbottando in sardo.

«Dovete stargli dietro, non mi pare ci stia con la testa» azzardò Fabio.

«Mio suocero sta benissimo, glielo posso assicurare. È perfettamente lucido e in grado di badare a se stesso, non si metterebbe mai in situazioni pericolose, ne sono certa. Buon pomeriggio!» rispose Laura seccata. Si girò di scatto e si avviò verso casa. Suo figlio di diciannove anni rimase, sorridente, piazzato di fronte al professore con le braccia incrociate sul petto.

«Io gli starei dietro. Un posto cattivo sotto l’abbazia, su avanti, non è proprio lucido, lucido.»

«Se fossi in voi, gli darei retta.»

«Uuuuuuh! Sento odore di presagio.»

Il sorriso sul volto di Aurelio si allargò, diede le spalle all’uomo e si diresse lentamente verso la sua chitarra.

«Se tuo nonno è così bravo nel vedere il futuro, perché non vi ha avvertito che la diga sarebbe crollata?» gli gridò Fabio, sarcastico. Odiava questo genere di pagliacciate.

Aurelio si fermò senza voltarsi e gli rispose.

«L’ha fatto,» poi si girò appena, guardandolo da sopra una spalla e aggiunse, «ma non gli hanno creduto.»

Si voltò e camminò tranquillamente sino alla sedia sotto il loggiato, e riprese la chitarra.

«Fate in modo che non si avvicini più agli scavi. Ci sono dei cartelli che vietano l’accesso ai non addetti ai lavori, fateglieli rispettare!»

Indispettito, Fabio aprì lo sportello della macchina, mise in moto e dopo una breve manovra si allontanò, sollevando dietro di sé un polverone.

«Che stronzate!» esclamò, guidando il fuoristrada per la strada sterrata che costeggiava i lago verso gli scavi.

Rientrato al campo base, Fabio ragguagliò i suoi studenti sul da farsi per tutelare gli scavi dai ficcanaso come Giovanni Moi, deridendo lui e la sua famiglia per le sciocchezze che aveva dovuto ascoltare.

Solo Marcello parve non trovare divertente il racconto del professore, infatti, abbassò la testa pensieroso.

«Tutto ok?» gli chiese il suo collega Andrea, dandogli una leggera gomitata.

«Sì», fu la sua risposta. Si alzò dal masso sul quale stava seduto e raggiunse Maurizio e Davide, che stavano classificando alcuni manufatti trovati durante gli scavi.

«Bene, bando alle ciance. Che si dice? Riusciremo a entrare nell’abbazia entro oggi?» domandò Fabio, cambiando discorso.

Il sorriso sul volto dei ragazzi scomparve di colpo e quando lo informarono che, per una serie di motivi, non sarebbe stato possibile montò su tutte le furie.

«Cosa?» domandò visibilmente alterato, «Ok, stiamo calmi o mi verrà un infarto. Avanti, qual è il problema?» chiese cercando di contenere il suo malumore.

«Benito vuole puntellare le pareti prima di entrare. Ha rilevato delle crepe nella roccia comunicante con il campanile. Parte del tetto ha retto bene, e una grande parte della navata centrale sembra sia sgombera dai detriti. A ogni modo il reale problema è che la zona che dobbiamo attraversare non è sicura, e potrebbe crollarci addosso. È un grosso rischio, prof.»

«D’accordo. Dov’è adesso quel geologo da strapazzo?»

«Il professor Cuglieri è alla villa» rispose Fabiana.

Mentre Fabio si allontanava per raggiungere il professore di geologia, Andrea raggiunse Marcello.

«Ehi, sei sicuro che vada tutto bene?»

«Sì, ma ho sentito delle voci su quel vecchio.»

«Di che genere?» chiese Andrea.

«Hai presente la ragazza che vive accanto alla villa che abbiamo affittato?»

«Occhi blu? Come si chiama?»

«Maura, Maura Mundula. L’ho incontrata ieri sera sulla spiaggia, fumava una sigaretta nascosta dai genitori.»

«Non sanno che fuma? Ma quanti anni ha?»

«Diciassette. Comunque, abbiamo chiacchierato e mi ha raccontato, tra le altre cose, che prima dell’alluvione, il signor Giovanni li aveva avvisati più volte che le forti piogge in arrivo avrebbero abbattuto la diga, ma nessuno gli diede retta» spiegò Marcello.

«Si sarà accorto di qualche crepa nel muro della diga, sarà stata una coincidenza. Non mi dirai che credi nell’occulto?»

«Tu no?»

«No e con il lavoro che facciamo non va a nostro favore credere a queste cose. Sicuramente rende tutto più affascinante, ma restano comunque cazzate.»

«Comunque c’è dell’altro. A sentire Maura, quel vecchio è stato capace di predire diverse situazioni spiacevoli che si sono avverate tra la gente di Riva dei Laghi. Per dirne una, sapeva che il bambino della famiglia Fadda sarebbe nato malato.»

«Marcello, e tu credi a una ragazzina che nemmeno conosci? Sicuramente voleva fare colpo su di te e ci ha provato con qualche storiella, ma vedi… la cosa veramente triste e che ci è riuscita», sghignazzò Andrea, «Occhio amico, è minorenne.»

«Che stronzo!»

*

Nel tardo pomeriggio furono sistemate e fatte esplodere due cariche cave, il resto del disgaggio sarebbe stato manuale. Dei lavori se ne sarebbe occupato il geologo Benito Cuglieri con i suoi ragazzi.

«Quanto pensi ci vorrà?» chiese Fabio al caposquadra.

«Se non troveremo intoppi, sicuramente l’intera giornata di domani.»

Fabio incitò i suoi ragazzi a terminare il lavoro di classificazione dei pochi reperti rinvenuti all’esterno dell’abbazia, con la notizia che avrebbero avuto un giorno di vacanza. Era un uomo di cinquantadue anni, molto scrupoloso e serio nel suo lavoro, ma riconosceva anche le esigenze dei suoi allievi. Un giorno di pausa non avrebbe potuto fargli che bene, tanto più che non avrebbero potuto fare altro, il lavoro di disgaggio doveva essere compiuto dall’equipe di geologia.

*

Come spesso accadeva durante l’estate, gli abitanti di Riva dei Laghi avevano organizzato un barbecue sulla sponda del lago, al quale parteciparono quasi tutti. L’invito fu diramato anche all’equipe dell’università, che fu lieta di parteciparvi.

Il menù della grigliata era a base di salsiccia e pancetta, vino rosso e birra. Nonostante l’invito fosse stato inviato a tutte le famiglie (undici in tutto), non si presentarono né la famiglia Moi, né la famiglia Locci, né tantomeno il vedovo solitario Walter Addari.

Marcello si avvicinò a Maura, che tagliava un pezzo di salsiccia al piccolo Mattia, il bimbo down dei Fadda.

«Stai sempre con lui?» chiese sedendosi su una roccia.

Mattia si alzò dal suo posto, corse verso di lui, sorprendendolo con un bacio, leggermente umido, sulla guancia, e tornò al suo posto, sulla coperta stesa per terra nascondendo il visetto tra le mani.Maura rise, vedendo l’espressione sbigottita di Marcello.

«Gli sei simpatico, altrimenti non lo avrebbe mai fatto. Sì, passo molto tempo con lui, sono la sua tata per tutta l’estate. Lo sono da quando aveva tre anni» disse arruffando i capelli al piccolo che addentava un pezzo di salsiccia, «Mattia, non con le mani, dai, ne abbiamo già parlato mi pare», aggiunse rivolgendosi al bimbo mentre gli passava un tovagliolo di carta sul palmo della mano e gli porgeva una forchetta. Mattia la prese un po’ imbronciato, ma poi sorrise e la ringraziò.

Maura si alzò vedendo arrivare di corsa cinque bambini, che reggevano pericolosamente i loro piatti di plastica con la salsiccia.

«Ecco i piccoli di Riva dei Laghiiiiii!» esclamò applaudendoli. I bambini si sedettero accanto a Mattia, iniziando a mangiare e chiacchierare.

«Li conosci tutti?» chiese Marcello divertito.

«Ci puoi contare! Quelle due pesti sono le gemelle Faenza, Benedetta e Maddalena di sei anni. Questi tre,» disse toccando la testolina sudata dei bambini, «sono i figli dei Cojana, Marco di dieci anni, Eleonora di sette e Giulia di quattro. Dei veri tesori, ma presi uno alla volta. Per finire abbiamo il piccolo del gruppo: Ian, due anni, che sta in braccio al suo papà, il signor Mattias Deidda», lo informò la ragazza indicando un ragazzo che indossava una maglietta degli Iron Maiden.

Qualcuno, nascosto tra i cespugli, spiava accovacciato l’allegra compagnia. Il profumo di carne arrosto e lo schiamazzo erano arrivati fino alla sua casa. Aveva lasciato la sua collezione di tappi ed era corso fuori, di nascosto dai suoi anziani genitori che guardavano una replica di CSI alla TV. Lo credevano addormentato, ma lui non aveva sonno. Lì, nascosto nel buio, dove la luce delle lampade a gas non arrivava, spiava con invidia quel mondo a cui avrebbe voluto appartenere, ma che lo intimoriva. Tra tutti, lui aveva occhi soprattutto per Elena, la sorella minore di Maura, di quindici anni.

Avrebbe voluto stare con lei, passeggiare mano nella mano e magari accarezzarle i capelli, sarebbe stato delizioso. Poi un rumore improvviso lo fece sobbalzare distogliendolo dai suoi sogni, non vide nessuno. Probabilmente era stato solo un coniglio, ma ormai il panico si stava impossessando di lui e corse verso casa.

Salvatore aveva quarant’anni, ma il suo cervello ragionava come quello di un quattordicenne, problemi alla nascita, così dicevano. I suoi genitori, Paolo e Lina Locci, erano troppo anziani e forse anche imbarazzati da quel figlio così particolare. Loro erano l’altra famiglia che non partecipò al barbecue.

*

Andrea vide il suo collega e amico chiacchierare con “occhi blu” e immediatamente li raggiunse, con l’intenzione di stuzzicare la ragazza sulle presunte doti di Giovanni Moi.

«Buona sera!» esclamò sbucando dal nulla.

«Ti presento Andrea. Andrea, ti presento Maura» disse con mezzo sorriso Marcello, che sospettava delle intenzioni dell’amico

«Bene, bene, Maura. Volevo proprio conoscerti.»

«A sì? E perché?»

«Marcello mi ha incuriosito, parlandomi di te.»

Marcello sollevò gli occhi al cielo un po’ imbarazzato.

«E cosa può mai averti detto? Abbiamo parlato solo di Giovanni Moi», disse incuriosita.

«Ecco, appunto, il signor Moi… sono curioso, ma davvero ha previsto che la diga sarebbe crollata?»

«Sì.»

«E anche che il piccolo, sarebbe nato così?» chiese indicando con il capo Mattia, che giocava con Eleonora a impilare delle pietre.

«Sì, e allora?» domandò Maura, evidentemente infastidita.

«Dai Andrea, dove vuoi arrivare?» gli chiese Marcello cercando di farlo smettere.

«Niente. È solo che non ci credo, tutto qui.»

«Nessuno ti chiede di farlo» ribatté Maura.

La chiacchierata fu interrotta dal tintinnio di una forchetta su una bottiglia. Tutti si girarono verso Gianluca che, abbracciando sua moglie, si preparava a un annuncio. Maura colse l’occasione e andò verso il centro del bivacco, lanciando un’occhiataccia ai due ragazzi. Non le era piaciuto l’atteggiamento di Andrea, e Marcello se ne accorse.

«Bene, so che io e Rita non siamo qui da molto, ma ormai ho avuto il piacere di conoscervi tutti abbastanza per affermare che siete una bella comunità, della quale siamo orgogliosi di appartenere», un sorriso compiaciuto da parte degli ascoltatori accolse le parole di Gianluca, «Ed è per questo che vogliamo fare un annuncio… Aspettiamo un bambino!» esclamò abbracciando la moglie e sollevandola da terra. Tutti applaudirono e si complimentarono con la coppia in attesa del lieto evento.

Dopo l’annuncio i partecipanti al raduno si dispersero, ormai l’effetto della birra e del vino iniziavano a farsi sentire, rendendo gli animi briosi e rilassati. Intanto Marcello raggiunse Maura sulla riva del lago, anche perché Andrea si era unito a un gruppo di colleghi che discutevano col professor Mulleri.

«Ehi, tutto bene?» le chiese avvicinandosi.

«Il tuo amico è veramente irritante» disse, continuando a guardare il riflesso della luna sullo specchio calmo del lago.

«Lo so, ma è un bravo ragazzo, credimi. Non è così stronzo come sembra, quando serve sa essere un vero amico… e poi è geniale.»

Dopo quelle parole Maura si voltò a guardarlo e gli sorrise. Non si poteva distinguere il colore dei suoi occhi, ma nel riflesso della luna brillavano.

2. Frustrazione.

Nella camera buia Giovanni Moi sedeva sul suo letto, con gli occhi sbarrati che fissavano il vuoto. Vedeva ciò che nessuno poteva vedere, sentiva ciò che nessuno poteva sentire. Piccolissime perle di sudore brillavano sulla sua fronte rugosa e sul labbro superiore. Vedeva la figura di una strana persona molto piccola, con lunghi capelli corvini, aggirarsi per le sponde del lago. Non riusciva a vederla in viso, da qualsiasi parte si girasse, la faccia restava nascosta. Provava freddo, ansia e più cercava di scorgere il viso di quella strana creatura, più l’orrore s’impossessava di lui.

«Ti ndi deppis andai! Ti ndi deppis andai!»

Le urla dell’uomo svegliarono il figlio e la nuora, che si precipitarono in camera sua, accendendo la luce.

«Papà, che c’è? Che hai?» chiese con apprensione Luca, scrollando delicatamente il padre.

«Dio mio, senti le sue mani. Sono ghiacciate» disse Laura, mentre iniziava a massaggiargliele con vigore.

«Papà, rispondimi. Papà!» insisteva Luca.

«Ti ndi deppis andai, maladitta!» urlò ancora Giovanni, con lo sguardo apparentemente perso nel vuoto, ma nella sua mente correva dietro alla strana figura. Voleva fermarla e voltarla per vederla in faccia, ma era sfuggente.

«Chi deve andare via? Papà, parlami per favore. Chi deve andare via?»

Fu in quel momento che, nell’inseguimento mentale di Giovanni, la creatura si fermò. Con uno scatto repentino, girò la testa verso di lui e allora la vide, per poi scomparire tra gli alberi, lasciando il vecchio con un turbamento profondo.

«Esti unu dimoniu…» sussurrò Giovanni, mentre il suo sguardo ritornava presente.

«Papà, finalmente. Di chi sta parlando, chi è il demonio, di cosa parla?» domandò Laura.

Giovanni sorrise debolmente, guardando la nuora che gli era inginocchiata davanti e lo guardava preoccupata.

«Issa esti arribendi…» Una lacrima gli bagnò il viso.

Laura guardò il marito angosciata. Luca asciugò le lacrime del padre con il palmo della mano.

«Stai tranquillo, pà. Vedrai che si sistemerà tutto», gli disse amorevolmente, mentre lo aiutava a coricarsi.

Giovanni non disse nulla e si lasciò guidare dal figlio, ma quando uscirono e rimase solo nel buio della sua camera, rivide quegli occhi.

*

In cucina, davanti a una tazza di camomilla i due coniugi affrontarono per la prima volta l’argomento che tanto preoccupava Giovanni, e che adesso preoccupava anche loro.

Laura raccontò ancora le parole dette dal suocero in presenza del professore. Lui ne era convinto, sotto l’abbazia vi era qualcosa di malvagio e pericoloso.

«Aspettiamo, e se le cose si mettono male faremo una riunione per informare gli altri. Papà sarebbe capace di avvertire tutti, andando casa per casa. Poi andremo a Cagliari da tua madre. Se deve succedere qualcosa, noi saremo al sicuro. Almeno spero» disse Luca.

«Questa volta lui non se ne vorrà andare via. Non voleva farlo neppure l’altra volta. Crede di poter aiutare col suo dono, ma nessuno gli crede.»

Luca guardò la tazza che teneva in mano.

«Forse dopo l’alluvione saranno disposti a credergli.»

Quale fardello era costretto a portare suo padre? Quando era ragazzo aveva odiato il suo dono. Odiava quel giorno in cui gli aveva predetto l’incidente in auto che avrebbe avuto con i suoi amici e lui non gli aveva creduto. Perché non l’aveva preso a schiaffi, costringendolo a stare a casa? Forse perché sapeva che ne sarebbe uscito illeso? Forse perché non avrebbe potuto farci niente? Se solo gli avesse dato ascolto, forse i suoi amici Claudio e Flavio sarebbero ancora vivi.

*

Il giorno dopo le piccole esplosioni, per aprire un passaggio alla base del campanile, continuarono quasi senza sosta. Alla fine della giornata quasi tutto il percorso nella roccia era stato puntellato, mancava solo l’ultimo tratto.

«Fabio, sarai contento, domani, in tarda mattinata, i lavori di disgaggio saranno finiti e voi potrete finalmente entrare» disse il capo squadra.

«Era ora!» esclamò entusiasta il professore, tra gli applausi degli studenti.

Tutti i manufatti ritrovati all’esterno dell’abbazia erano stati catalogati e spediti all’università, dove il resto dell’equipe studentesca, guidata dalla professoressa Silvia Carboni, continuava la ricerca sull’origine, l’età e il significato di alcune iscrizioni incise su delle tavole trovate inchiodate, presumibilmente come monito, sul portone principale dell’abbazia.

Avevano trascorso una torrida giornata. Quella sera l’umidità toglieva quasi il respiro. Il cielo azzurro si specchiava sul lago dandogli una tonalità di turchese intenso, mentre il cinguettio degli uccelli tra i maestosi lecci davano un senso di quiete e di eternità.

Una pace che non faceva parte dell’indole smaniosa di Salvatore, costretto dal padre ad aiutarlo a sistemare nella legnaia i ceppi per l’inverno che il camion aveva scaricato davanti al cancello della loro casa.

«Devi cambiare abitudini, Paolo. Ormai non hai più l’età per questo lavoro» gli suggerì la moglie dalla veranda, seduta sulla sua sedia a dondolo intenta a leggere una rivista di pettegolezzi.

«Sempre la stessa storia, Lina? Lo sai che in estate la legna è secca, risparmiamo, in un quintale ne entra molta di più!»

«Va bene, ho capito, ma dovresti pagare qualcuno per aiutarti.»

«E per quale motivo? Abbiamo un omaccione grande e grosso ad aiutarci, non è stato capace di fare altro nella sua vita, e il minimo che possa fare è aiutare noi che ancora lo abbiamo sulla groppa!» esclamò Paolo con sarcasmo, asciugandosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto che si era levato dalla tasca.

«Per l’amor del cielo Paolo! Potrebbe sentirti, sai che non è colpa sua» lo rimproverò Lina chiudendo di scatto il giornale e facendo scorrere velocemente lo sguardo dal marito al figlio, che riempiva la carriola vicino al cancello.

«È stupido, che vuoi che capisca?» disse l’uomo abbassando leggermente la voce. Salvatore, intanto, ritornava con la carriola colma di legna e un’espressione frustrata sul viso. Non aveva sentito le parole del padre, almeno quella volta. Voleva solo scappare al lago e nascondersi tra le frasche. Di certo, a quell’ora, la sua Elena stava facendo il bagno con i suoi amici e lui voleva vederla, voleva fantasticare di stare insieme a loro e soprattutto con lei. Far parte di quel mondo che tanto lo spaventava.

Da qualche mese la sua smania di vederla diventava sempre più insistente, stava cambiando, adesso lui la voleva toccare.

«Che c’è? Perché quella faccia?» domandò Paolo al figlio e aggiunse, «Non sarai già stanco?»

«No, pà» rispose Salvatore, rovesciando rumorosamente la carriola.

«Su, altri due viaggi e avrai finito, a impilarla ci penserò io.»

«Va bene, pà» rispose Salvatore, con forza rinnovata per la bella notizia. Lina sorrise e ritornò alla sua rivista.

*

«Dove vai?» chiese Lina, circa venti minuti dopo, vedendo il figlio dirigersi al cancello con un asciugamano sulla spalla.

«Vado a fare il bagno, mà» disse fermandosi, aspettando col batticuore il suo permesso.

«Va bene, ma fai attenzione e non ti allontanare.»

«Va bene, mà.»

Salvatore si girò subito sapendo di mentire, e si avviò il più velocemente possibile verso la strada. S’inoltrò tra gli alberi eccitato perché finalmente era libero di fare quello che voleva. Arrivò sulla riva del lago, sicuro di vedere il gruppo dei soliti ragazzi sull’altra sponda, ma non riuscì a scorgere nessuno.

Aguzzò la vista, ma sembrava proprio che non ci fosse nessuno. Avvilito, iniziò a spogliarsi, erano quasi le diciannove e tra un’ora lo avrebbero chiamato per la cena. S’immerse nell’acqua fresca con lo sguardo verso l’altra sponda, andò sott’acqua e quando riemerse si accorse di una figura su una roccia, proprio dove amava sdraiarsi la sua Elena quando era sola. Si passò le mani sul viso per togliersi l’acqua dagli occhi, che gli annebbiava un po’ la vista. Era proprio lei, si era alzata in piedi pronta a tuffarsi, il seno nudo spiccava candido in netto contrasto con l’abbronzatura.

Salvatore a quella vista ebbe un’immediata erezione; lui iniziò ad avvicinarsi costeggiando la diga appena messa in sicurezza, dove ancora detriti del vecchio cemento armato giacevano sul fondo. Raggiunse una vasta zona di phragmites, quelli più vecchi erano stati abbattuti dalla forza dell’acqua ma i nuovi, con i loro pennacchi e le loro lunghe foglie, erano abbastanza cresciuti da poterlo nascondere. Sapeva di essere al sicuro, tutti avevano paura di spingersi tra la flora del lago, preferivano restare dove l’acqua era limpida e lasciava intravedere le rocce sul fondo.

Elena intanto era riemersa e si arrampicava aggraziata sulle rocce per raggiungere l’asciugamano, si asciugò guardandosi intorno, come a volersi assicurare che in giro non ci fosse nessuno. Salvatore aveva fatto scivolare la mano, per stringerla intorno al pene e iniziare, nelle sue fantasie, a fare l’amore con lei, ma quando Elena sciolse anche i fiocchi degli slip, per avvolgersi nell’asciugamano, un’eiaculazione precoce lo sorprese, lasciandolo umiliato e frustrato.

La guardò raccogliere le sue cose e allontanarsi verso casa, mentre la rabbia che sentiva si trasformò in pianto. Rimase lì a sfogare la sua sofferenza per la sua diversità e per la paura di tutto e di tutti, che forse non sarebbe mai riuscito a superare, ma ci avrebbe provato. Sì di questo era sicuro. La prossima volta che avrebbe visto il falò sulla riva si sarebbe avvicinato e poi… La voce del padre che lo chiamava lo distolse dalle sue fantasticherie, s’immerse e nuotando sott’acqua raggiunse la sponda dove Paolo lo attendeva.

3. Nuove scoperte.

Alle 11,30 del 4 Agosto l’equipe era pronta per entrare nell’abbazia. L’adrenalina scorreva nelle vene e l’euforia offuscava la ragione dei giovani partecipanti. Benito si avvicinò al professor Fabio Mulleri per presentargli la sua preoccupazione.

«Fabio, ti posso parlare?» gli chiese piano, allontanandosi dai ragazzi.

«Che c’è?»

«Scorre troppa adrenalina nella tua squadra. Ho dato uno sguardo li dentro con i miei uomini, e messo in sicurezza ciò che potevamo. In alcuni posti la struttura è piena di terra e detriti fino alla volta, abbiamo dato una controllata con i macchinari alla scala che porta al piano superiore e al tetto, sembra che sia tutto a posto, ma..»

«Ma?»

«Non vi crollerà nulla addosso, a meno che non si facciano cazzate. Dai loro una calmata.»

Secondo lui i ragazzi si stavano esaltando un po’ troppo, e per affrontare il percorso occorrevano, invece, calma e prudenza. Fabio era d’accordo, e dopo una strizzata d’occhio al suo collega, chiamò a raccolta gli studenti.

«Vi vedo troppo esaltati, vedete di darvi una calmata, o l’unica persona a entrare sarò io.»

I sorrisi dal viso dei ragazzi scomparvero.

«Insomma prof, stiamo per entrare in un’abbazia, risalente, come minimo, al XIV secolo, abbazia di cui non si sa nulla e che non compare in alcun testo. Non può chiederci di restare calmi, è impossibile», si giustificò Alessandro.

«Chi è d’accordo con lui alzi la mano» chiese il professore.

Fabiana, Christian e Davide si fecero avanti.

«Siamo troppo eccitati professore e non vediamo l’ora di entrare!» esclamò la ragazza.

«E voi, invece?» disse rivolto al resto del gruppo.

«Io personalmente ho un po’ di paura. Con questo non voglio dire che non sia eccitato all’idea di entrare…» rispose Andrea.

«Forse dovresti aspettarci fuori e occuparti di catalogare le meraviglie che noi, intrepidi esploratori, riporteremo alla luce!» esclamò ironicamente Davide.

«Andrea non ha tutti i torti. Quel posto è rimasto sepolto per chissà quanti secoli, non sappiamo cosa troveremo» intervenne Giacomo.

«Potrebbe crollarci tutto sulla testa o potremmo restare intrappolati», aggiunse Marcello.

«Okay! Se ho capito bene, da una parte abbiamo Alessandro, Fabiana, Christian e Davide, impavidi archeologi pronti ad affrontare qualsiasi pericolo. Mentre dall’altra abbiamo Andrea, Giacomo, Marcello e Maurizio che sono contenti di entrare ma che comunque temono ciò che li aspetta. Ho capito bene?»

«Esatto» rispose Alessandro per il suo gruppo.

Gli altri non dissero nulla, distolsero lo sguardo un po’ imbarazzati, ma rimasero del loro parere. Trascorso un minuto di silenzio, Fabio prese la sua decisione.

«Bene! Andrea, Giacomo, Marcello e Maurizio, preparatevi. La squadra di geologia vi consegnerà le tute e i caschi muniti di luce, in più avrete una torcia e una ricetrasmittente.»

«Non capisco» intervenne Alessandro.

«Allora ti spiego. Preferisco lasciare gli “ardimentosi senza paura”qui fuori, con la speranza che la loro esuberanza si esaurisca nell’attesa» rispose Fabio, lasciando Alessandro e il suo gruppo piuttosto irritati. Poi si girò verso Benito che lo guardava con un sorrisetto stampato sulla faccia. Quando gli fu vicino si complimentò con lui.

«Però, ci sai fare» gli disse.

«Non è merito mio, ma del mio professore. Fece anche lui così quando ero uno studente» rivelò Fabio.

«Anche tu avevi paura?»

«No. Infatti io rimasi fuori» rispose sorridente.

La squadra era pronta a entrare, l’altra metà sedeva su cumuli di terra, le espressioni imbronciate e stizzite, ma nessuno osava controbattere.

Il professore non li degnò di uno sguardo, dovevano capire la lezione. Amava il suo lavoro e spesso aveva rischiato anche lui, ma sulla propria pelle mai su quella degli altri.

«Ehi prof, guardi li chi c’è» disse piano Andrea guardando di sfuggita verso il bordo transennato.

Fabio vide Giovanni, appoggiato al suo bastone che li guardava severo.

Poi si rivolse ai ragazzi che sarebbero rimasti fuori.

«Fate in modo che il vecchio non si avvicini più di così agli scavi. Non voglio guai.»

I ragazzi rivolsero lo sguardo verso Giovanni che continuava a fissarli con le sue canute sopracciglia a evidenziare la sua disapprovazione.

«Okay, professore» rispose Alessandro.

Il passaggio aperto nella roccia comunicante con l’abbazia aveva una larghezza di appena un metro, per uno e sessanta di altezza. Il gruppo entrò al suo interno in fila indiana, leggermente chinati per non sbattere la testa sulla roccia soprastante. Il primo a entrare fu il professore, gli altri seguirono a un metro di distanza l’uno dall’altro. Li investì il tanfo di umidità, l’odore di terra bagnata e legno marcio era forte e pungente.

«Dubito fortemente di trovare tele o documenti cartacei in buone condizioni» disse Fabio, con un pizzico di delusione.La sua voce sembrava uscire da una sorta di tubo, ciò rimarcava l’angusto spazio in cui si trovavano, anche l’ossigeno sembrava scarseggiare, ma era solo carico di umidità.

Dopo aver percorso qualche metro arrivarono nel locale sottostante al campanile. Le scale erano parzialmente crollate, per il momento non avrebbero potuto accedervi.

L’arco in pietra che conduceva al secondo locale aveva tenuto ma era stato comunque puntellato, dalla squadra di geologia. Si ritrovarono in quella che sarebbe dovuta essere la sacrestia, una stanza vuota e buia, la feritoia, era ancora murata dalla terra esterna.

Il gruppo avanzava e osservava tutt’intorno in religioso silenzio. Il pavimento era indistinguibile, il fango asciutto e i detriti lo ricoprivano quasi totalmente. Un’eco cadenzata rivelava che da qualche parte doveva esserci dell’acqua.

Il locale della sacrestia aveva, da una parte, una porta che conduceva alle navate, e dall’altra una stretta scala che portava al piano superiore, forse al dormitorio.

«Che facciamo, ci dividiamo?» chiese sottovoce Maurizio. Tutti guardarono il professore aspettando una risposta, indirizzando la luce dei caschi sul suo volto.Fabio ci pensò per qualche istante.

«Marcello e Maurizio, venite con me di sopra, e voi due date uno sguardo a quanto è rimasto dell’altare. Per ora evitiamo di toccare, limitiamoci a un’ispezione generale e a prendere nota dell’ambiente circostante. Una volta fuori faremo una piantina e la divideremo in settori, che controlleremo minuziosamente. Come dicevo, dubito il ritrovo di documenti intatti, anzi probabilmente non ne troveremo nessuno, ma non si sa mai. Mi raccomando prudenza.»

La squadra si divise.

Andrea e Giacomo attraversarono la porta. La lastra di pietra che con ogni probabilità era stata adorna di un grande crocefisso, era leggermente divelta dal suolo verso destra. L’altare aveva retto molto meglio, essendo stato ricavato dalla roccia, e sembrava che non avesse subito alterazioni. Maurizio e Marcello intanto seguirono Fabio su per la scala. Non era solo stretta, era anche molto bassa, tanto da costringerli a camminare con le spalle leggermente ricurve.

La scala condusse i tre in un altrettanto stretto corridoio. Sulla parete sinistra erano presenti quattro stanzette prive di porta, anche se un tempo dovevano esserci state, considerando i segni. Sembravano le celle di una prigione. Sul lato destro, le alte feritoie che permettevano alla luce di filtrare, non erano state in grado di mostrare le celle durante gli scavi, considerata la loro forma a imbuto verso l’alto.

Fabio notò all’interno, tra i detriti e la terra, dei lembi di un qualche tessuto.

«Finalmente qualcosa d’interessante, pensavo che qui dentro non ci fosse rimasto più nulla!» esclamò indicando ai ragazzi il pezzo di stoffa.

Marcello proseguì per il corridoio. Notò che in tutte le camere si trovavano delle basse costruzioni in pietra, come se fossero delle mangiatoie, ma con ogni probabilità si trattava di letti fatiscenti, nei quali era riposta della paglia ricoperta con del tessuto, per renderli più confortevoli. Durante la sua perlustrazione notò anche dei simboli incisi sulla pietra, all’altezza della testata del letto. Osservando con attenzione si accorse dell’incisione di una croce alta almeno due metri sulla parete opposta al giaciglio.

Con una certa emozione tornò indietro, e dopo aver dato una rapida occhiata alla camera nella quale si trovavano ancora Fabio e Maurizio, guardò con un largo sorriso i compagni.

«Che ti prende? Hai trovato un tesoro?» domandò Maurizio, mentre si alzava.

«Non avete notato la parete sulla testata del letto?»

«C’è inciso qualcosa» osservò Fabio, che stava ancora accovacciato sul cumulo di stoffa e terra che era stata leggermente smossa.

«Bene, adesso guardate qui, è la croce dei Templari, guardate» disse indicando l’altra parete, poi continuò: «tutt’e quattro le stanze ne hanno una. Solo il simbolo e la scritta sui letti è differente.»

«E che diamine ci facevano i Templari in questo posto mille anni fa?» domandò Fabio, passando delicatamente la mano sull’incisione. Proprioin quel momento Andrea entrò nella stanza.

«Questa la dovete proprio vedere, ragazzi. Sembra che ci sia un meccanismo nell’altare, era protetto da una lastra di marmo» li informò.

«Vi avevo detto di non toccare nulla, potevate rovinare o innescare qualcosa!» lo rimproverò furioso Fabio.

«Sembrava un’innocua mattonella di marmo inciso e, udite, udite, sopra la scritta c’è una croce e sembra proprio il simbolo dei Templari.» Pronunciate queste parole, Andrea si accorse della croce sulla parete, «Porca puttana!» esclamò , «Sapete cosa significa? Se erano confinati qui, in mezzo al nulla, di certo custodivano un segreto.»

«Okay, andiamo a dare un’occhiata» disse il professore. Giacomo, intanto, era inchinato a osservare attentamente la base dell’altare, ma quando udì i passi dei compagni si sollevò.

«Professore, credo che il meccanismo faccia spostare l’altare, anzi, ne sono sicuro. Gli hai detto dei Templari?» chiese, rivolto ad Andrea.

«Lo sapevano già, anche di sopra ci sono i loro simboli.»

«Allontanati, Giacomo. Fammi dare un’occhiata» disse Fabio, avvicinandosi all’altare.

«Sembra lo spazio per una chiave a incastro, ma non riesco a distinguere il simbolo.»

«È troppo consumato» osservò Giacomo.

Fabio guardò i ragazzi.

«Potrebbe essere una grande scoperta, ed è nostra», annunciò in tono grave il professore, «detto questo è necessario muoverci con estrema cautela sia sul campo che a livello burocratico, ma di quest’ultimo ce ne occuperemo io e Antonio Ferrari. Ci servirà l’aiuto anche degli altri, dovrò fare un discorso molto serio, sia a voi che a loro. Adesso continuiamo a perlustrare e, Giacomo, mi raccomando, senza toccare neppure una scheggia.»

Andrea cercò di difendere il compagno, evidenziando che proprio grazie a lui, era stato scoperto il sepolcro.

«Pensi che con una perlustrazione e una conseguente ricerca guidata dalla cautela e dalla ragione non l’avremmo trovato?» chiese indispettito Fabio, riducendo gli occhi a due fessure.

«Beh, certo che sì.»

«Avresti detto lo stesso se Giacomo, togliendo quella lastra avesse innescato un meccanismo fatale, e l’avessimo dovuto portare fuori privo di vita? In quel caso saresti stato tu a dire ai suoi genitori cos’era successo, e mi domando cosa avresti risposto, quando ti avrebbero chiesto il perché tu, proprio tu, non l’avessi fermato.»

Sull’eco di quelle parole cadde il silenzio.

«E adesso continuiamo, e per l’amor di Dio usate il cervello!»

Nessuno disse nulla. Marcello e Maurizio seguirono il professore nella stretta scala per esaminare le celle al piano superiore.

«Grazie, Andrea» disse Giacomo appena furono rimasti soli.

«E di che. Solo, adesso, non toccare più nulla amico. Il pensiero di dover dire a tua mamma del tuo “trapasso”, mi ha messo i brividi» rispose Andrea con un sorriso.

Giacomo ricambiò il sorriso. Iniziò a prendere appunti, disegnando una mappa della posizione dell’altare e di ciò che lo circondava. Intanto Andrea continuava la sua perlustrazione lungo la navata centrale. Un cumulo di terra sabbiosa e pietre era franato con una parte delle mura proprio davanti al portone principale. Se quello era un posto dove i Templari celavano un segreto doveva esserci un’uscita secondaria ben nascosta, magari proprio sotto l’altare… ma come avrebbero fatto a spostarlo senza innescare chissà quale trappola?

Sarebbe stata una grande fortuna riuscire a trovare la chiave per il congegno, ma era più semplice trovare un ago in un pagliaio. Magari la chiave non era più lì, e quell’abbazia era stata semplicemente abbandonata.

Andrea si voltò a osservare il compagno chino sotto l’altare, e da quel punto si accorse che il muro di una parete sembrava doppio, come se fosse un enorme pannello, utilizzato per nascondere qualcosa. Non disse nulla e si avvicinò alla parete, dove scorse uno stretto corridoio che affiancava il lato destro. Non l’avrebbero potuto notare perché sembrava un normale muro, ma da quella prospettiva l’ingresso era ben visibile. Andrea ritornò nel punto in cui aveva notato la doppia parete e chiamò l’amico.

«Ehi, Giacomo, vieni.»

«Che c’è, hai trovato qualcosa?»

«Mettiti accanto a me e guarda verso quella parte, dimmi cosa vedi.»

Giacomo guardò nella direzione che gli indicava l’amico.

«Macerie. Un muro e macerie.»

«Osserva meglio, lì, dove le pietre sono più scure», disse sorridendo, orgoglioso di essersi accorto solo lui del passaggio. Giacomo aguzzò la vista, spostando lentamente il fascio di luce sulla parete.

«Ehi, ma c’è un passaggio!» esclamò sgranando gli occhi verso Andrea, che si limitò ad assentire con il capo.

I ragazzi si avvicinarono seguendo il fascio di luce delle torce che si addentrava nel corridoio, occultato a opera d’arte. Si avvicinarono con molta cautela, camminando tra le macerie fino a raggiungere l’imbocco del corridoio.Dopo un primo sguardo e memori del rimprovero appena ricevuto, andarono a chiamare il professore.

In breve i cinque furono nel punto esatto in cui Andrea aveva notato il misterioso passaggio. Non ci volle molto perché Fabio notasse la falsa parete, che forse celava un passaggio per un ambiente segreto, ma non svelò agli altri dove si trovasse. Aspettò pazientemente che fossero in grado di distinguerlo da soli. Anche quello faceva parte del programma di studio per formare un bravo archeologo.

Dopo qualche minuto lo stesso Fabio chiamò via radio Benito, che lo raggiunse con due uomini.

«Cosa te ne pare?» chiese il professore fiducioso.

Il geologo guardò attentamente la parete.

«Queste pietre sono solide… Fabio, potete stare tranquilli. Il calcare filtrato con l’acqua in tutti questi anni ha saldato le pietre tra loro. Comunque andremo a dare un occhiata in profondità, sperando di non trovare macerie che ci intralcino il cammino, in tal caso dovremmo ricorrere ancora all’esplosivo» dichiarò Benito, facendo segno ai suoi collaboratori di seguirlo.

I tre si addentrarono nello stretto passaggio, con passi esperti e sicuri, lasciando Fabio e i quattro ragazzi in trepida attesa all’imbocco del corridoio. Con la radio stretta in una mano, Fabio li seguì con lo sguardo, fino a quando non riuscì più a vederli. Il buio andava intensificandosi, ma il fascio delle loro potenti torce illuminava il loro cammino. Stettero via più di un quarto d’ora, segnalando di tanto in tanto, via radio, che il passo non era ostruito dalle macerie

A un tratto Benito parlò con tono assai più alto

«Udite gente! Il corridoio sbuca in una grande stanza, si direbbe un refettorio. Per vostra fortuna, sembra intatto. Inoltre scorgo un’altra porta, sembra porti in un altro locale. Datemi un attimo. Passo.»

La radio rimase muta per alcuni minuti tra le mani di Fabio, che fremevano per l’emozionante notizia dell’integrità della stanza.

Un fruscio della radio anticipò le parole di giubilo di Benito.

«Santo Cielo, Fabio, questa volta hai fatto tombola!»

«Che avete trovato?»

«Lo vedrai, oh se lo vedrai! È la scoperta del secolo, caro mio. Stiamo uscendo. Passo.»

Il professore e gli studenti si scambiarono sguardi di compiacimento, stringendosi con vigore la mano.

«Cosa avranno trovato, prof?» chiese, quasi in un bisbiglio, Giacomo.

«Che c’è ragazzo, ti manca la voce? Tra non molto lo sapremo, vedo la luce delle loro torce» aggiunse il professore guardano all’interno del corridoio.

«Complimenti!» esordì Benito rivolto a Fabio, uscendo con un braccio proteso pronto a stringergli la mano.

«Avete trovato dei manufatti integri?»

«E no, caro amico, non vi dirò nulla. Potete andare di persona, il passaggio non presenta insidie, troverete solo qualche maceria lungo il percorso, ma niente d’insuperabile, insomma, il passaggio è sicuro. Andate, ma prendete queste, lì non ci sono feritoie, è buio pesto», disse mentre gli porgeva la sua torcia, e incoraggiava i suoi uomini a fare altrettanto con gli studenti.

Quando furono pronti imboccarono il corridoio. Lungo il cammino trovarono dei detriti che scavalcarono facilmente. L’aria condensata, per via dello stretto cunicolo che non permetteva un facile riciclo dell’aria, rendeva difficile ossigenarsi.

I cinque camminavano in fila indiana, Giacomo, l’ultimo della fila, puntò il fascio della sua torcia verso l’alto, notando che il soffitto era alto almeno una decina di metri. Se davvero le stanze che avrebbero trovato non avevano feritoie, forse il passaggio era stato progettato in quel modo, proprio per facilitare l’infiltrarsi dell’aria. Il ragazzo considerò che, nonostante l’idea sembrasse non funzionare, poteva essere questo il reale scopo della progettazione.

Nel frattempo i fasci di luce illuminarono l’ingresso ad arco della prima stanza.

«Bene, ci siamo. Mi raccomando, limitiamoci a dare uno sguardo senza toccare nulla. Siamo d’accordo?» domandò Fabio rivolto ai suoi studenti. Questi si limitarono ad assentire con un leggero cenno del capo e proseguirono.

Come già gli era stato preannunciato, si trattava di un refettorio, anzi, come poi poterono notare, si trattava di una vera e proprio cucina. A conferma di questo, oltre al grande tavolo in pietra posto al centro della stanza, adagiato sull’altrettanto grande mosaico a forma di croce, nella parete dinanzi all’ingresso era presente un caminetto piuttosto ampio, con diversi ripiani sui quali erano sistemati utensili in rame. Alcune brocche di diversa forma giacevano sul pavimento di pietra levigata. Sulle pareti spiccavano resti di quelle che dovevano essere torce, assicurate a blocchi di pietra.

La tavola sembrava preparata per un prossimo pasto, e apparecchiata per quattro persone, con ciotole e tazze di coccio. Nel camino legna carbonizzata ormai fossilizzata, faceva da base a un paiolo in rame che pendeva da un gancio mobile.

Il professore perlustrò attentamente le pareti fino a scorgere la piccola porta di cui Benito gli aveva parlato. Si addentrarono in un nuovo corridoio, molto più corto del precedente che terminava in un’altra striminzita stanzetta, ma che conteneva una scoperta incredibile che lasciò i cinque ricercatori senza parole, col fiato sospeso ad ammirare ciò che la luce delle torce svelava ai loro occhi increduli.

4. Il dono.

Giovanni Moi aveva osservato gli uomini dell’equipe entrare nell’abbazia e si era allontanato, prima che i giovani che aspettavano all’esterno lo potessero rimproverare. Ripercorse la strada sterrata a passo svelto, appoggiato al bastone, inoltrandosi tra i cespugli e gli alberi fino a raggiungere la sponda del lago. Si sedette su una roccia, poi chiuse gli occhi e respirò profondamente. Doveva entrare con loro nell’abbazia e l’unico modo era scindere la propria anima dal corpo e permettergli di fluttuare libera. Doveva riuscire a guidarla all’interno di quelle mura, una tecnica che aveva affinato nel tempo, da quando era bambino e aveva scoperto il suo “dono”.

Da allora ne aveva fatto uso solo una decina di volte e dall’ultima era trascorso molto tempo, ma ciò era indispensabile per dare risposte alle sue visioni, doveva rendersi conto se il terrore che provava pensando all’entità celata sotto l’abbazia fosse realmente un pericolo imminente, oppure avvertiva qualche evento che era accaduto in un altro tempo. Inspirò ed espirò profondamente per quattro volte, i tratti del suo viso si rilassarono, infine, richiamò il primo degli elementi.

«Acua!» Detto questo inspirò profondamente, trattenendo per alcuni secondi il respiro prima di espellere l’aria.

«Terra!» Inspirò e trattenne.

«Area!» La voce era più debole. Inspirò e trattenne.

«Fogu!» Inspirò, trattenne, espirò e tacque.

Ora poteva vedersi inerme seduto sulla roccia, le mani sul bastone piantato davanti a lui, tra le ginocchia. Chi lo avesse visto, avrebbe pensato che fosse immerso nella contemplazione dello splendido paesaggio.

Raggiunse l’abbazia e il gruppo che si era inoltrato al suo interno. Non si curò di raggiungere quelli saliti a perlustrare le celle, né di seguire i due che perlustravano le navate. Era attratto dall’altare, era lì che doveva andare. Cercò di passare attraverso il passaggio nascosto sotto di esso, ma una forza misteriosa glielo impediva. Non si trattava dell’entità, di questo era certo. Fece nuovamente appello ai quattro elementi per rafforzare il suo spirito ma fu inutile, qualunque cosa fosse, era in grado di bloccargli l’ingresso, così come avrebbe impedito a qualunque spirito di uscire, questo lo tranquillizzò.

Guidato dall’aura s’inoltrò verso il passaggio che poco dopo i ricercatori avrebbero perlustrato e raggiunse la stanzetta segreta. Lui era già lì, quando i cinque ricercatori, immobili dinanzi allo stupefacente ritrovamento, puntavano le loro torce sui tre corpi mummificati adagiati su altrettanti giacigli.

Dalle labbra raggrinzite del vecchio seduto sulla roccia, uscirono alcune parole che si persero nel venticello tiepido di quella mattina d’agosto.

«Ndi manca unu. Sa crai.» (“Ne manca uno. La chiave.”)

Era stato via troppo tempo, doveva rientrare nel suo corpo, o sarebbe stato costretto a vagare per l’eternità. Raggiunse così la sponda del lago, e si osservò prima di rientrare. Guardò quel viso rugoso e se ne rattristò, la giovinezza se n’è era andata e lui si sentiva molto stanco.

Il rito iniziò:

«Fogu…»

«Aera…»

«Terra…»

«Acua…»

Un rigagnolo d’acqua leggermente sporca di terra gli scivolò dall’angolo della bocca, prima che lui si ridestasse completamente, scosso da violenti colpi di tosse, rientrò nuovamente nel suo corpo mortale.

*

I tre corpi mummificati giacevano uno accanto all’altro.

«Guardi professore indossano la cotta, sono in tenuta da combattimento» disse con un sussurro Andrea.

«No, questo si chiama giaco ed è più leggera rispetto alla cotta. Questo tipo di maglia era destinata ai Templari segreti» rispose Fabio, avvicinandosi. «Ed è impossibile che siano qui!»

«Perché?» domandò Giacomo.

«Perché dovrebbero essere di ferro» rispose Andrea.

«Esatto. E adesso dovrebbero essere polvere» proseguì Fabio massaggiandosi il mento.

Nel frattempo gli altri, che sino a quel momento non avevano avuto il coraggio di muoversi, osarono dei passi in direzione dei Cavalieri.

«Non toccate niente!» intimò Fabio.

«Professore, sembrano sdraiati su dei sarcofagi, come a voler proteggerne il contenuto. Al loro interno si cela qualcosa, forse il loro segreto» azzardò Maurizio.

«Speriamo, sai non credo siano dei sarcofagi. Sembrano dei contenitori,

simili alle nostre cassapanche, ma come mai questi tre uomini sono sdraiati qui sopra?» domandò più a se stesso che ai suoi allievi.

«Forse qualcuno li ha adagiati qui dopo morti» propose Giacomo, non troppo convinto.

«Sì ma perché? Guardate, questa non è una tomba.»

All’incitamento del professore i ragazzi mossero i fasci luminosi per tutta la stanza alla ricerca di un qualcosa capace di dare loro una risposta, ma la stanzetta non recava nessun tipo d’incisione o disegno.

«Tutto questo ci impegnerà per anni e voi, cari studenti, se darete il meglio, avrete il dottorato in tasca con un bagaglio di esperienza che i vostri colleghi vi invidieranno e che, probabilmente, nessuno di loro potrà mai avere!»

Le parole del professore ebbero un forte impatto sui ragazzi e forse, per la prima volta, si resero veramente conto dell’importanza della loro scoperta.

«Professore, ho bisogno di uscire all’aperto» disse improvvisamente Maurizio con un filo di voce, mentre s’inchinava piegandosi sulle ginocchia, e posando una mano sul pavimento di pietra. Giacomo gli fu subito accanto per sostenerlo e lo accompagnò nel movimento inginocchiandosi affianco a lui.

«Ehi, amico tutto bene?» gli chiese preoccupato.

Il professore vedendo lo studente in difficoltà si riebbe dall’emozione, decidendo di ricondurre la piccola squadra verso l’uscita.

L’angusto corridoio non permetteva loro di procedere uno accanto all’altro.

«Tieniti alle mie spalle» disse Giacomo a Maurizio, passandogli davanti. Andrea gli cinse i fianchi per sostenerlo e avvertì immediatamente il fremito nel corpo dell’amico.

«Ehi Mauri, tutto bene? Stai tremando.»

«Vuoi che ci fermiamo?» chiese Giacomo, che sentiva le mani di Maurizio stringergli le spalle. Le sentiva fredde come quelle di un morto, avvertiva la sensazione di ghiaccio trapassargli la pelle fino alle ossa.

«No, no, vi prego usciamo, non fermiamoci…»

Fecero appena in tempo a uscire che Maurizio fu scosso da una serie di conati di vomito, come se l’aria fresca, invece che rinsavirlo, lo stesse avvelenando. Poi fortunatamente si riprese, riuscendo a calmarsi.Fabio gli si avvicinò, mentre gli altri rimasero indietro.

«Ma che gli è successo?» domandò Fabiana a Marcello.

«Non so. A un tratto si è accasciato e a chiesto di uscire.»

*

Nel frattempo Fabio si prese cura del suo studente.

«Va Meglio?» chiese, mettendogli una mano sulla spalla.

«Sì, credo di sì» rispose Maurizio, per poi sputare un filo di bava che, ostinatamente, cercava di restargli unito al resto della bocca.

Quando si girò tutti poterono notare il suo pallore.

«Vuoi dirci che ti è successo?» continuò Fabio.

«Non so. Non so spigarmi.»

«Fifa, amico?» domandò Alessandro che, dopo aver visto il volto di Maurizio, capì che la sua battuta era stata fuori luogo

«Ok. Per oggi tu hai finito, vai a riposarti. Più tardi parleremo. Prendi la Jeep e accompagnalo, poi torna qui» aggiunse rivolgendosi ad Andrea.

«Ok, professore. Andiamo Mauri.»

Maurizio non disse nulla, si alzò e lo seguì.

Quando furono in marcia Andrea cercò di tranquillizzarlo.

«Sai, forse ti è venuto un attacco di claustrofobia, può succedere. Magari sapere di essere in un posto mezzo sotterrato vivo e al buio può averti un po’ scosso» disse guardandolo di tanto in tanto, mentre guidava. Maurizio per tutta risposta, si sporse dal finestrino e vomitò ancora.

«Oh, forse ti sei beccato uno di quei virus intestinali, spera che non sia così o ti ridurrai uno straccio.»

Quando furono davanti alla casa, Maurizio scese.

«Non disturbarti ad accompagnarmi, ora sto meglio. Torna pure agli scavi.».

«Sei sicuro?»

«Mi è sembrato di vedere qualcosa di strano in quella stanza» rivelò quasi sovrappensiero Maurizio.

«Che intendi?»

«Niente, niente. Probabilmente hai ragione tu, sono un po’ scosso e forse ho anche un virus. Ora mi butto a letto e poi starò meglio. Vai» insistette senza neanche voltarsi, infilò la chiave nella toppa ed entrò in casa.

Andrea inserì la retromarcia e usci dal cancello imboccando, con una sgommata, la strada per tornare all’abbazia. Quando Maurizio sentì la Jeep allontanarsi appoggiò la schiena alla porta e si lasciò scivolare sul pavimento.

«Non è possibile… ho visto male… no, non è proprio possibile…» ripeté con un filo di voce.

Il cuore gli batteva forte, era sicuro di aver visto una figura fluttuare in un angolo della stanza dove giacevano i Templari, ma nonostante tutto cercava di darsi una spiegazione logica. Il fatto che non ci fosse, gli procurò un leggero capogiro e un nuovo conato di vomito gli salì alla gola.

*

Giovanni si asciugò, con la mano tremante, il rivolo di fango scivolatogli dall’angolo della bocca, con il candido fazzoletto che aveva tolto dalla tasca dei jeans. Respirò profondamente e nuovi colpi di tosse scossero violentemente il suo corpo. Doveva controllare il suo respiro, lentamente. Concentrandosi… lentamente

Cercò di alzarsi facendo leva sul bastone, ma era immensamente faticoso e si rilassò ancora sulla roccia. Doveva aspettare. Chiuse gli occhi umidi di lacrime dovute ai colpi di tosse, e gli balenò nel buio delle palpebre la sua immagine decrepita, era troppo vecchio per questa tecnica. Certo, si sentiva nel corpo come se avesse ancora vent’anni, ma era merito della forza dei quattro elementi. Il vero problema era rientrare in quel corpo debole, troppo debole. Sarebbe rimasto seduto ancora per un po’, non poteva farsi venire un infarto proprio adesso. Doveva agire con calma e aspettare. Un fruscio alle sue spalle lo spaventò, ma poi sentì quel respiro pesante che conosceva bene.

«Salvatore, sei tu?» chiese l’anziano, mentre un altro colpo di tosse lo colpiva.

«Sì. Stai bene?» domandò il ragazzo, avvicinandosi.

«Stai tranquillo amico mio, sto bene, devo solo riposare.»

«Ho avuto paura. Ti ho salutato ma tu non mi hai risposto, quasi non respiravi e allora mi sono nascosto» disse Salvatore sedendosi ai suoi piedi.

«Sei un caro ragazzo a preoccuparti per me» gli disse arruffandole i capelli. Salvatore sorrise e gli appoggiò la testa sulle ginocchia.

«Tu sei l’unico amico che ho. Ti voglio bene.»

Non sono molte le persone che gradiscono la compagnia di un ritardato, a parte la propria madre. Per Salvatore non era diverso. Certo, qualche volta anche suo padre parlava con lui, ma solo quando guardavano il calcio in TV. C’era anche la sua psicologa, che si ostinava a farlo partecipare a quelle inutili riunioni di gruppo con altri “speciali” come lui, ma Salvatore voleva solo essere lasciato in pace. Non amava parlare di sé, e non gli importava ascoltare i fatti altrui.

Con Giovanni era diverso, spesso stavano ore in silenzio, sdraiati sulle rocce lisce ad ammirare il cielo, e ascoltare il verso dei corvi imperiali. Durante l’inverno portavano frutta che posavano su delle piccole piattaforme, che le guardie forestali avevano sistemato in vari punti tra gli alberi. Restavano in silenzio ad aspettare di vedere i picchi rossi maggiori andare a prendere il dolce cibo e volare via. Una volta, mentre contemplavano il riflesso delle nuvole sul lago, furono distratti da un verso che lui aveva udito solo la notte, ma non era mai riuscito a capire a che specie appartenesse. Ed eccolo lì, scendere a peso morto, un magnifico esemplare di barbagianni.

«È un maschio,» gli spiegò Giovanni, «le femmine hanno il petto con piccole macchie nere. Probabilmente stanotte non ha avuto fortuna nella caccia, e deve nutrire la sua compagna e i suoi piccoli.»

Salvatore ne rimase affascinato e l’osservò risollevarsi in volo con una lucertola tra gli artigli. Sì, Giovanni era l’unico con il quale si sentiva sempre a suo agio. Sempre.

«Promitti ca candu d’appu addimandai de no bessidi e domu, tu mi ponisi ascultu» disse a un tratto il vecchio, con un tono tanto grave che costrinse Salvatore a guardarlo preoccupato.

«Non ti ho capito» rispose. Non capiva tutto della lingua sarda, ma aveva inteso la preoccupazione nella sua voce.

«Un giorno io ti chiederò di non uscire di casa, e tu quel giorno dovrai stare con i tuoi genitori, non in camera tua, ma con mamma e babbo… d’accordo?» ripeté paziente, cercando di usare un tono di voce più dolce.

«Va bene, lo faccio» rispose il ragazzo, senza smettere di fissarlo.

Giovanni sapeva bene che quando Salvatore lo fissava in quel modo intendeva chiedergli qualcosa che lo agitava o che lo metteva in imbarazzo, quindi, come spesso faceva lo incoraggiò a parlare.

«Che c’è ragazzo, qualcosa ti turba? A me puoi dirlo.»

Salvatore assentì con la testa, ma ancora non si decideva a parlare.

«Coraggio» insisté l’anziano.

«Scenderà ancora la pioggia? Spazzerà via ancora le case? Io non voglio, ho paura!» esclamò finalmente, con lo sguardo terrorizzato.

«No, stai tranquillo. Niente più acqua, almeno non così tanta, ma vorrei saperti con i tuoi genitori quando ti dirò di farlo, va bene?»

«Sì», fu la sua risposta. Si fidava ciecamente di Giovanni e tranquillo si appoggiò di nuovo sul suo grembo. Non c’era bisogno di dire altro, non serviva spaventarlo.

«Bonu, piccioccu.» Di rado parlava il sardo con Salvatore, ma sapeva che aveva capito il significato.

“Bravo ragazzo.”